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Montecassino

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Sono nato ad Amalfi, poco dopo la fine della Grande Guerra, nel 1921 e non ho mai conosciuto mio padre. Mi ricordo poco dei miei primi anni; ero ancora in braccio a mia madre quando, tornando verso casa, ella inciampò in una granata quasi dissepolta che esplose, io ne uscii indenne ma lei, proteggendomi, perse l’uso di un braccio e completamente l’udito. La mia vita è sempre stata a metà, ricevevo le carezze con una sola mano, stavo in braccio, sempre sullo stesso lato; vivevo, a metà strada, come Amalfi.
Una piccola perla incastonata nella costiera omonima, divisa tra il mar Tirreno e i monti Lattari. Non sapevo quale direzione avrebbe preso la mia bussola, andare per mare, come i miei avi, ai gloriosi tempi dell’antica Repubblica o inerpicarmi sulle montagne, così come ogni giorno ascendevo l’affetto e l’amore per mia madre, che non sentiva quando la chiamavo mamma, non poteva ascoltare i miei propositi, ma intuiva se le parlavo con la voce dell’anima. Lei era la mia costante, la mia pietra di paragone: avrei vissuto una vita semplice, fatta di piccole gioie o una vita straordinaria? Il destino volle che mi confrontassi con l’altra grande guerra.
Qualche anno dopo, trasferiti a Crotone, le mie aspirazioni erano ancora dentro una nebbia grigia che avvolge un sogno. Crotone come Amalfi era adagiata fra il mare e i monti; io inseguivo gli ideali della Patria, fantasticando battaglie epiche, come quelle combattute nell’antichità da Kroton, fratello di Alcinoo, re dei Feaci. Ma era anche il tempo delle leggi razziali e Crotone era stata il centro più importante della Magna Grecia, la città di Pitagora, che ne fece il cuore della sua scuola, del suo pensiero condiviso da altri filosofi, e patria del razionalismo e del metodo scientifico. Il clima salubre della città, favorì il fisico atletico, ricordavo il pluri-olimpionico Milone.
La leggenda narra che egli partì per Olimpia portando un toro sulle spalle e sulle mie spalle già gravava il peso delle responsabilità di una vita maturata in fretta, senza la guida di una figura paterna. Crotone era famosa anche per la bellezza delle sue donne, io ne sposai una.
Il mio viaggio proseguì, a vent’anni risalii quasi tutta la penisola, approdando a Pietra Ligure, per frequentare la scuola di fanteria San MarcoIl panorama non cambiò molto, come Amalfi e Crotone, anche questa, era divisa tra la montagna e il mare. Quello che stava cambiando era il panorama mondiale, lo scenario bellico. A fine corso fui spedito a Cassino in appoggio alle forze militari germaniche. Iniziai così a percorrere il sentiero nero della guerra. Il mio battaglione venne stanziato presso una caserma fortificata a 3km da Cassino, posizione conosciuta come Quota 213. Ma la quota, alla quale si stagliavano le bianche mura dell’Abbazia, era un po’ più in alto e per arrivarci si dovevano attraversare mulattiere impervie a causa delle barricate, dei campi minati, delle grotte usate come postazioni strategiche, persino una sorta di piccolo Golgotha dove erano crocifissi due soldati polacchi. A volte c’era una calma irreale, i tedeschi se ne stavano per conto loro, tutti avevamo il sentore che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno. Ebbi l’occasione di conoscere uno dei loro comandanti, un colonnello molto colto, ma non troppo amato dai suoi commilitoni.
Fu lui ad introdurmi nei silenziosi, austeri, corridoi dell’antico Monastero.
Il fascino di quei luoghi, le mirabili spiegazioni del colonnello seppur nel suo stentato italiano, come il primo documento riconosciuto della lingua italiana, la Carta Capuana, lì custodita. Ammirai gli archivi, le favolose biblioteche piene di opere dell’antichità, conservate e trascritte nei secoli dalle scuole amanuensi e miniaturistiche degli abati. Non capivo perché un uomo della sua cultura, una sorta di Virgilio, per me, potesse obbedire ad ordini così feroci e inumani. Fu lui a rispondermi indirettamente, disse che in guerra il vero nemico non si può sconfiggere, perché in guerra il vero nemico è la guerra stessa. E chi nasconde la conoscenza, quello è un vero criminale: in quel preciso istante seppi quale sarebbe stato il sentiero che avrei percorso nella vita. Fummo richiamati a Roma pochi giorni prima dell’Armistizio, e proprio l’8 settembre mi ordinarono di sparare: non so’ se i miei colpi freddarono i nuovi nemici, i tedeschi. Gli alleati risalivano lentamente la penisola, seppi della battaglia di Montecassino, dei tanti morti tra i civili -una strage inutile, delle rovine che le truppe americane si lasciarono alle spalle, persino delle macerie dell’Abbazia.
In quel momento il mio pensiero era per un solo uomo e per mia madre.
Finita la guerra, intrapresi il lungo viaggio a piedi che mi avrebbe ricondotto a Crotone, feci tappa a Cassino per salire sopra, fino alle macerie. Qualcuno mi indicò un piccolo cimitero: trovai la sua tomba.
Ridiscesi di nuovo quel sentiero, ero un altro uomo.
Diversi giorni dopo, poco prima di Crotone, incontrammo una colonna di profughi. Seppi che c’era anche mia madre, non ci riconoscemmo.
Ora, mentre sono in classe con i miei alunni, rivedo i loro volti, quello di mia madre sull’uscio sorridente ad accogliermi.
Noi seppelliamo vivi i nostri morti, nessuno muore mai per sempre. Perché di tutte le vite che sfioriamo, ne resta il ricordo in fioche memorie.

In memoria di Giovanni Torre (1921-2003)

Montecassino, le macerie

Montecassino, il cimitero tedesco

Madre sull’uscio

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