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Umberto Eco e la bustina di Minerva

Nota dell’autore: a quasi una settimana dalla scomparsa di Umberto Eco (semiologo, filosofo e scrittore) avvenuta il 19 c.m. autore di famosi romanzi come ad esempio Il nome della rosa (1980) e trasposto al cinema da J.J. Annaud nel 1986. Ritenuto uno dei più grandi pensatori della nostra epoca, in campo filosofico-letterario tanto da ricevere la bellezza di 40 lauree honoris causa (ma mai il Nobel che secondo me sarebbe stato meritatissimo), ho deciso di dedicargli questo post, su un argomento attinente ai contenuti del blog e in merito ad un suo articolo pubblicato da l’Espresso nel lontano 10 gennaio 2002 nella rubrica dal titolo “La bustina di Minerva”, articoli poi raccolti dallo stesso Eco in un libro pubblicato da Bompiani nel 1999.
Il testo che segue è tratto dalla relazione con la quale partecipai, come relatore, al convegno “Ultraterrestre”, tenutosi a Napoli nel febbraio 2010, dal titolo 2012: al cinema e oltre, chiaramente improponibile da pubblicare oggi per intero.

 Umberto_Eco«Come scrivere un messaggio in modo che chiunque, anche tra 10.000 anni possa capirlo?».
Quest’ultima domanda, è l’introduzione all’articolo dove il famoso studioso, omaggia un altro studioso, Thomas Sebeok (1920-2001), uno dei massimi esperti in Semiotica o Semiologia che è la disciplina che studia i segni nella comunicazione. Nell’articolo succitato si legge che nel 1984 il governo americano nelle vesti dell’U. S. Nuclear Regulatory Commission, aveva chiesto aiuto all’Office of Nuclear Waste Isolation, in quanto, cito dal testo: «aveva scelto alcune zone desertiche degli Stati Uniti per seppellirvi (a molte centinaia di metri di profondità) delle scorie nucleari».
La loro preoccupazione non era tanto per il presente, ma per il futuro, visto che queste restano attive per 10.000 anni. Ipotizzando che la Terra in quest’enorme lasso di tempo avrebbe potuto subire sconvolgimenti climatici tali da ridurre i suoi abitanti ad uno stadio di barbarie, quindi incapaci di interpretare correttamente le informazioni, oppure che la stessa Terra venisse visitata da popoli di altri mondi, la loro principale preoccupazione era, si legge nell’articolo di: «come informare quei visitatori futuri che la zona è pericolosa?».
I tecnici dell’Office of Nuclear Waste Isolation, spiazzati forse dal quesito, passarono la patata bollente a Sebeok.
Lo studioso si mise subito a lavoro senza tralasciare nulla, ma scartò subito diverse ipotesi.
Escluse, infatti le comunicazioni verbali, i segnali elettrici, i messaggi olfattivi, e ogni forma di ideogramma, sia immagini riconoscibili (come la figura umana), che figurativi. Ma anche altre soluzioni più complicate e particolareggiate furono inesorabilmente scartate in quanto prevedevano, continua Eco: «quella continuità sociale e territoriale che il quesito metteva in discussione».
Come fare quindi? Restava una sola, unica, soluzione. Come scrive Eco nell’articolo, Sebeok pensò semplicemente, ma sorprendentemente, di «tornare all’antico».
Il consiglio che diede ai mittenti del curioso, ma vitale, quesito fu: «di istituire una sorta di casta sacerdotale, formata da scienziati nucleari, antropologi, linguisti, psicologi, che si perpetui nei secoli per cooptazione(1) e mantenga viva la conoscenza del pericolo, creando miti, leggende e superstizioni».
Se si riesce a cogliere appieno il consiglio del famoso studioso, lo spiraglio che si apre nel tunnel dello scetticismo contemporaneo è enorme e getta una nuova luce sulla comprensione dei misteri del passato, ma soprattutto ridona valenza storica a tutti quei comportamenti, incomprensibili ai più, dei sapienti vissuti nel passato.
Ammettendo quindi, quella potrebbe essere definita la mitizzazione dell’informazione, la storia andrebbe completamente reinterpretata, con una chiave di lettura diversa, ma molto più efficace.
E forse tutti i nodi verrebbero al pettine.
Prova ne è la riflessione dello stesso Eco che così conclude l’articolo: «Non credo che gli enti interessati abbiano dato ascolto a Sebeok. Volevano qualcosa di più concreto. Ma lo scetticismo di Sebeok li aveva avvertiti che, in certe circostanze, non c’è nulla di più concreto del mito».

Note e fonti:
1. La cooptazione è un metodo per la scelta dei nuovi membri di un organo collegiale, consistente nella loro elezione da parte dell’organo stesso (o di un collegio ristretto costituito al suo interno).
Wikipedia

credits photo: Wikipedia

Creature fantastiche?

Sabato scorso, sono stato alla mostra “Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito” al Museo Nazionale Romano (Palazzo Massimo), promossa e prodotta dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma in collaborazione con Electa. Il museo merita una lunga ed approfondita visita con i suoi quattro piani ricchi di opere, ma chiaramente quello che a me più interessava, data l’estrazione di questo blog, erano logicamente le diverse sale che ospitano la mostra sopra citata. Nelle due ore trascorse, sembra veramente che si venga catapultati in un lontano mondo passato dove le avventure degli eroi di ogni antica civiltà, alle prese con fiere di ogni genere, rivivano in quello spazio, con un’atmosfera creata ad arte.
Il titolo dato all’esposizione è coerente con la storiografia attuale, ma il dubbio che posso sollevare, legittimo, è proprio sull’origine del mito stesso e se le creature lì raffigurate siano davvero fantastiche, frutto della fantasia o della superstizione delle antiche genti. Intanto sui pannelli informativi relativi alle opere esposte l’incipit è questo: «Era il mostro di origine divina…» (Omero, Iliade VI, 222), mentre per gli organizzatori: «Per mostri qui si intendono quegli esseri che non trovano corrispondenza nella realtà, creati dall’immaginazione dell’uomo, che hanno animato racconti ancestrali e miti». Forse i mostri non erano o non sono di origine divina (nel senso stretto del termine), sta, di fatto, però, che non possiamo verificare ora quale fosse la corrispondenza nella realtà in cui erano immerse le antiche civiltà. In pratica la mia domanda è: “e se invece gli esseri descritti in molte opere erano reali e che quindi non facevano sicuramente parte del mito?”. Alcuni anni fa uno dei più famosi esperti in Semiotica o Semiologia, che è la disciplina che studia i segni nella comunicazione, Thomas Sebeok, scomparso ormai già da qualche anno, ebbe a dire che: «in certe circostanze, non c’è nulla di più concreto del mito». Un’affermazione questa che lascia poco spazio all’interpretazione. È proprio questa la circostanza?
Non possiamo esserne certi al cento per cento, quindi sebbene sempre sui pannelli informativi della mostra sono riportate citazioni tratte da diverse opere letterarie famose, ritenute di fantasia dal corrente pensiero ortodosso, tra le quali spiccano: l’Iliade di Omero, le Metamorfosi di Ovidio, il Prometeo Incatenato di Eschilo, l’Eneide di Virgilio e frasi di Apollodoro, è d’obbligo, secondo me riportare quanto invece affermava lo storico babilonese Beroso (ca 350 a.C. ca 270 a.C.), che raccontò dell’arrivo nel Golfo Persico di esseri metà uomo e metà pesce, definiti Oannes (le cui raffigurazioni non avrebbero certo sfigurato nella mostra) e che scrisse, a proposito della creazione dell’uomo: «all’inizio la divinità Belo (…) generò diversi esseri orribili (…) Apparvero uomini con due ali (…) molti altri loro organi avevano una parte maschile e una femminile. Altre figure umane avevano zampe e corna di capra, oppure piedi come cavalli. Altri, simili a ippocentauri, avevano la parte posteriore come cavallo, mentre davanti erano come uomini»(*). Quindi ammirando le rappresentazioni di Tifone, generato da Gaia (la Terra) e da Tartaro personificazione del Caos; del Minotauro che «Minosse decise di allontanare di casa quest’essere e di rinchiuderlo nei ciechi corridoi di un complicato edificio»; dei Grifi: «cani non latranti di Zeus con rostri adunchi»; le Sirene e le Arpie: «Figlie di Acheloo, rappresentate come uccelli dal bellissimo volto femminile», protagoniste nei racconti di Ulisse; della Sfinge: «fusione di uomo e leone», che è presente in tutte le culture dell’antico mediterraneo; della Chimera: «che dalle fauci vomita vampe di Etna»; delle Gorgoni: «le terribili… avevano teste avvolte da scaglie di serpenti, zanne grosse come quelle dei cinghiali»; dei Centauri: «uomini cavalli mostrano qualità umane, come forza e coraggio e pulsioni ferine incontrollate», dei Sileni e dei Satiri, dei quali gli autori antichi, non spiegano «l’origine della natura ibrida umana, equina o caprina… non appartengono né ai mortali né agli dèi immortali»; infine dei mostri marini Acheloo e l’Idra di Lerna, non posso non pensare che ci possa essere un fondo di verità in tutto questo. Ipnotizzato da Medusa, leggo l’ultima citazione, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, che conclude la mostra: «… cosa credi di fare, tu che ti celi sotto una forma illusoria».

 *Nota: Z. Sitchin, Il pianeta degli Dei, Edizioni Piemme, 2000, pag. 333.

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